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Come la Stampa 3D sta rivoluzionando le missioni nello spazio (e non solo)

Photo credits: NASA

La stampa 3D ha il merito di avere rivoluzionato in maniera radicale il mondo della manifattura. La sua capacità di creare oggetti complessi, strato dopo strato, e la molteplicità dei materiali utilizzabili da questa tecnologia hanno aperto nuovi orizzonti nei più disparati settori produttivi.

Tra le applicazioni più rivoluzionarie vi è sicuramente l’utilizzo della stampa 3D nello spazio. Questa tecnologia ha infatti le potenzialità per incidere fortemente sull’efficienza e sulla sostenibilità delle missioni spaziali. Ma le implicazioni connesse all’utilizzo della stampa 3D in questo settore non si fermano qui. L’uso di biostampanti 3D in condizioni di microgravità si sta rivelando fondamentale nel mondo della medicina riabilitativa e dei trapianti.

Stampare nello spazio: la risposta al problema delle parti di ricambio

Ogni missione richiede che ingenti quantità di materiale siano trasportate nello spazio e lì conservate, per garantire agli astronauti tutto il necessario per sopravvivere per lunghi periodi in orbita.

Sulle stazioni spaziali, infatti, gli astronauti mangiano, dormono, si allenano e conducono importanti esperimenti ed attività di ricerca.

Perché tutto questo sia possibile, secondo le dichiarazioni della NASA, a bordo della stazione spaziale internazionale (ISS) sono immagazzinati oltre 13mila kili di parti di ricambio e oltre 17mila kili di queste rimangono a terra, pronte per essere inviate in orbita non appena se ne verifichi la necessità. [1]

Photo credits: NASA

Come possiamo immaginare, spedire pezzi in orbita alla ISS, a 250 miglia sopra la Terra, richiede tempo e denaro. Per questo motivo, la possibilità di realizzare direttamente nello spazio i componenti di cui gli astronauti hanno bisogno, aumenterebbe notevolmente l’autosufficienza della stazione spaziale, rendendo le missioni più indipendenti dalla Terra.

L’autonomia produttiva si rivelerà ancor più fondamentale in future missioni, più lontane e complesse, dove un intervento da terra sarà di fatto impossibile.

La stampa 3D è quindi indubbiamente la tecnologia che meglio si presta a garantire un’autonomia produttiva, dato il suo fondamentale ruolo nella realizzazione delle parti di ricambio.

La prima stampante 3d nello spazio

La prima installazione nello spazio risale al 2014, con il lancio di una stampante FFF marcata Made In Space (oggi società acquisita da Redwire Corporation) sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Il progetto nacque proprio nella prospettiva di consentire agli astronauti di fabbricare in loco, se necessario, parti di ricambio e strumenti utili. Spedita alla ISS il 21 settembre 2014, la stampante ha prodotto il primo pezzo in 3D della storia il 24 novembre dello stesso anno.

Si trattava della piastra frontale del telaio della stampante.

Il primo pezzo funzionale ad essere stampato fu invece una chiave a cricchetto. Il file .stl è disponibile per la stampa sul sito della NASA.

Stampare in microgravità

L’obiettivo del progetto intrapreso nel 2014 era quello di testare la stampante in un ambiente di microgravità, per verificare la fattibilità di una produzione in orbita e per studiare l’effetto della assenza di gravità sulle caratteristiche dei pezzi stampati in 3D

Come auspicato, le ricerche condotte sui campioni non evidenziarono particolari difformità rispetto a quelli stampati in maniera tradizionale.

Stampa di metalli

Dopo i primi esperimenti condotti in orbita, nel corso degli anni la Nasa ha proseguito l’attività di ricerca, utilizzando nuove e più evolute stampanti 3D, capaci di lavorare diverse tipologie di materiali plastici.

Nonostante i numerosi passi avanti che sono stati compiuti, una svolta decisiva non si è ancora avuta per la stampa nello spazio di materiali metallici.

Photo credits Pavel Neznanov su Unsplash

Sulla Terra, la tecnologia più utilizzata per la stampa di metalli è la SLS (Selective Laser Sintering), una tecnologia che prevede l’utilizzo di un raggio laser per sinterizzare delle particelle di polvere.

Nello spazio, il ricorso a questa tecnologia si rivela più complesso: le polveri utilizzate sono infatti infiammabili e potenzialmente dannose per le vie respiratorie in caso di inalazione.

Tuttavia, la grande necessità di parti in metallo per le missioni nello spazio sta spingendo le varie agenzie spaziale verso l’identificazione di nuove soluzioni idonee, in grado di lavorare in sicurezza sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Stampa 3d di tessuti umani nello spazio

Come sappiamo, la produzione additiva si presta alla lavorazione di diversi tipi di materiali. Ma tra le applicazioni più interessanti vi è sicuramente l’uso di bio-stampanti 3D per la creazione di tessuti, cellule ed organi.

La possibilità di stampare i bio-inks in condizioni di microgravità potrebbe rivoluzionare significativamente il mondo della medicina rigenerative e dei trapianti. Sulla Terra, infatti, stampare tessuti molli in 3D è estremamente complesso. Questi, infatti, tendono a collassare per effetto della forza di gravità e necessitano di appositi supporti.

Per questo motivo, la possibilità di stampare nello spazio con gravità ridotta apre la strada a scenari prima non ipotizzabili.

I primi esperimenti di bio-stampa nello spazio hanno avuto inizio nel 2019, con l’invio della prima bio-stampante americana, la BFF (3D BioFabrication Facility) sulla stazione spaziale internazionale (ISS). 

L’obiettivo delle ricerche condotte dagli astronauti della ISS era proprio la riproduzione di tessuti umani in condizioni di microgravità.

I primi e sorprendenti risultati: il primo menisco stampato in 3d

I veri risultati sono arrivati nel mese di settembre 2023, a seguito dell’invio della nuova ed aggiornata versione della BFF nel novembre 2022. I ricercatori della ISS sono infatti riusciti a bio-stampare un menisco umano in 3D, utilizzando cellule umane vive come bio-ink.

Il menisco è stato scelto come primo obiettivo del progetto della BFF proprio grazie alle sue caratteristiche anatomiche, che lo rendono più agevole da riprodurre rispetto ad altri tessuti umani. Infatti, la cartilagine è scarsamente vascolarizzata, il che la rende più facile da stampare.

Secondo John Vellinger, vicepresidente esecutivo alla Redwire, questa è una milestone rivoluzionaria con significative implicazioni per la salute umana. Basta infatti pensare che il CDC americano, ossia il Centers for Disease Control and Prevention, stima che ogni anno 75000 americani sono in lista di attesa per un trapianto di organi. In Italia, invece, secondo il Centro Nazionale per i trapianti,[2] sono oltre 8mila i pazienti che sono in attesa di un trapianto di organo.

Photo credits Piron Guillaume su Unsplash

Per la sua prossima investigazione, la Redwire punta a stampare un campione di tessuto cardiaco.[3]

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